sabato 26 gennaio 2008

ICARO


Un tavolo piccolo e quadrato. Tre nuove amiche si scambiano parole e sguardi tra vino bianco e cocktail analcolici.
Il passato viene nei discorsi, viene sempre accennato per sorriderci su, per far capire quanto le cose possono cambiare.
Un paio di ragazzi si avvicinano e mi salutano. Uno dei due non si ricorda di me, ma sembra essere dispiaciuto dato che una volta seduto desidera la mia presenza.
Incredibili organizzazioni di settimane lesbiche raccontate a quattr'occhi, per programmare fantasticamente un futuro tutto roseo.
Dopo questi uomini che usiamo e che ci usano.
L'amore esiste, certo, in diverse sfumature.
Ho guardato lo specchio l'altra mattina, mentre il gatto Icaro mi faceva le fusa sul polpaccio ben disegnato e liscio. Ho guardato lo specchio ed ho visto di nuovo me stessa. Con quegl'occhi, con quella bocca, con quel suo modo di farti credere tutto e non darti nulla.
Con quella forza che mi ha spinto fino a raggiungere quelle cose.
Come se all'improvviso mi fossero spuntate un paio di ali.
Certo, tanto ha fatto lei e quella serata. Certo, tanto ha fatto quel bacio, di nuovo rubato, di nuovo li, di nuovo corrisposto.
Una passione silenziosa e sottile che esplode sotto qualche strana luce o nel buio della sua casa.
Nessun altro pensiero.
Solo me stessa, a testa alta. Colma di tutto.
Io rinasco senza te, dice una canzone. Io posso rinascere tutti i giorni.
E mentre qualcuno prega che io non parta oltreoceano, anche se fosse tra un anno, io dentro ci spero.
Perchè basta amarsi per ricominciare.

venerdì 18 gennaio 2008

PASSIONE DI MIGLIOR VENTO.


Tutto ebbe inizio quando lei mi baciò.
Ed io avevo fatto l'amore con lui da un'ora.
Lei con una normalissima scusa di truccarmi, si era avvicinata fin troppo al mio volto fino a sentirne il fiato e non avevo fatto neanche in tempo ad aprire gli occhi che lei aveva già sfiorato la mia bocca.
Un buon gusto di bayles, dolce e corposo.
Poi si è allontanata ed ha ripreso a truccarmi. Nessuna delle due aveva coraggio di dire qualcosa. Solo una telefonata, arrivata all'improvviso, aveva spezzato quell'imbarazzante silenzio.
Il suo ragazzo la invitava a cena in un posticino molto romantico.
Era il loro anniversario, tre mesi, i primi fatidici tre mesi.
Avevo preso la mia borsa, mi ero rimessa i miei stivali tacco nove, sistemata la gonna e l'avevo salutata come sempre, un bacio labbra su labbra, veloce. Entrambe ci aspettava una serata che lasciava solo spazio alla fantasia e alla passione. Lei era la mia migliore amica e quel bacio non mi aveva lasciata sconvolta. Forse perchè non era il primo, forse perchè io e lei eravamo sempre state così libere.
In macchina, stereo ad un volume forse troppo alto e guidavo, guidavo, senza tomtom o cartine.
Sapevo esattamente dove andare.
Ero entrata in casa, in una casa conosciuta da pochi mesi, candele sparse per terra e nell'aria ancora l'odore dei nostri corpi che si bramavano.

Quanto mi aveva voluta, un paio d'ore prima sul quel letto già rifatto, quanto mi aveva tenuta vicino a se per sentire il mio cuore battere, per sentire il mio respiro sulla sua pelle.
Mai ci eravamo amati così, con questa passione che passava dal violento alla dolcezza più pura.

Le nove e trenta sette. La porta della cucina chiusa a chiave. Volevo sbirciare, volevo sapere cosa c'era aldilà di quella porta di legno massiccio bianco.
Buio. In un attimo tutto si era fatto buio e avevo riconosciuto.
Il suo profumo.
Mi aveva messo un foulard sugli occhi e mi aveva baciato il collo abbracciandomi da dietro. Una canzone non conosciuta riempiva la casa. Mi aveva presa per mano e mi aveva condotta in chissà qualche luogo.
Quando avevo aperto gli occhi avevo ritrovato un tavolo rotondo imbandito per una cena romantica, romantica e solo nostra.

Avevamo mangiato, avevamo brindato con un buon vino rosso, avevamo sfiorato le nostre mani e dentro si fremeva ma avevamo atteso.
Che quella passione esplodesse in noi e avevamo fatto l'amore tutta la notte e lui non smetteva di farmi sentire bene, di avvicinarsi al mio seno e appoggiare la sua gote ed io mi avvicinavo e sfiorandogli leggermente il naso con il mio naso gli respiravo il suo respiro.
Tutto ebbe inizio quel pomeriggio.

La mia migliore amica mi aveva telefonato un paio di giorni dopo, in lacrime. Lui non era andato all'appuntamento dell'anniversario. Maledetto bastardo avevo pensato e già preparavo qualche piano strategico per fargliela pagare. Ma lei mi aveva fermata sul nascere, diceva che forse se me lo presentava se gli presentava la gente con cui lei usciva, lui si sarebbe aperto, fidato.
Appuntamento alle diciotto e trenta al Caffè Vittorio, ero arrivata prima di entrambi e mi immaginavo lei bellissima e imbarazzata e lui classico uomo ricco che tiene le ragazze come burattini e sapevo che non saremo mai andati d'accordo.
Lei era arrivata, bellissima appunto, circondata da uccellini fischiettanti e nei piedi delle paperine comprate insieme. Neri lunghi e lucidi i suoi capelli le coprivano le spalle.
Un sguardo.
Lui mi aveva sorriso camminando ed io avevo fatto un cenno, tirando su l'angolo sinistro della bocca.
Si stava avvicinando mentre lei girava ansiosa il caffè.
Dava le spalle. Io mi ero alzata gli ero andata incontro e lui mi aveva inaspettatamente baciata. Ero rimasta li, su due piedi e lei si era girata appena per vedere dove ero andata.
Ci eravamo avvicinati al tavolo, insieme, mano nella mano e gli avevo presentato lui. L'uomo che mi aveva amata e lei sapeva quanto.
Lui aveva tolto la sua mano con un gesto veloce e lei mi aveva guardata con gli occhi pieni di quelle lacrime che già conoscevo.

Amavamo lo stesso uomo.
Dallo stesso tempo.

Amavamo lo stesso uomo dallo stesso tempo e lui non aveva detto nulla, aveva sorriso e aveva ripreso a camminare.

Io e lei, una di fronte l'altra.
Il vento si stava alzando.
I suoi capelli svolazzavano e i miei restavano nella capigliatura per fermata.

Eravamo rimaste io e lei, una di fronte all'altra.
Tradite una dall'altra.

In modo silenzioso e mai creduto possibile.

Lui era sparito. Come sparivano quelle persone che nella vita non sapevano far altro che portare maschere.
Era arrivato il mio caffè.
Lei aveva chiesto due whisky.

Una volta arrivati aveva preso in mano il suo bicchierino e porgendomelo, aveva brindato, a noi.

Io mi ero sporta verso lei e l'avevo baciata labbra su labbra, senza timori.

Brindavamo a noi, a quell'amicizia che niente aveva potuto spezzare.

martedì 8 gennaio 2008

COME. SEI. VERAMENTE.


Pianoforte a coda, nero, lucido, messo in un angolo del salone e usato solo da mani esperte.
Entro silenziosa e vedo una schiena che si contrae un poco, un piede, quello destro, che si alza e si abbassa su un piccolo pedale e ogni tanto,sulla tastiera spuntano dita che creano accordi.
Come. Sei. Veramente.
Fuori piove. Hai accesso qualche lampada in questo grande salone per riportare quel colore rossastro dell'autunno vissuto insieme.
Ti manco. Lo sento dalle note che sprigioni, lo sento dalla passione che metti nel pressare quei tastini bianchi e neri, lo sento nel vedere la tua testa che si sposta che avanza verso l'intensità.
Rimango ferma e immobile sulla porta di legno massiccio con addosso il cappotto nero che gocciolando ha già formato una piccola pozza ai miei piedi. Rimango lì e ti osservo mentre con un gesto lento mi sposto una ciocca di capelli bagnata che mi tagliava in due l'occhio sinistro.
Un lampo. Tuona. Non ti fermi, non ti spaventa nulla ed io sobbalzando temo che tu possa avermi sentita.
Starei qui per sempre. A sentirti suonare, a vederti fare l'amore nell'amore.
Mi manchi. Lo sento dal mio cuore che accelera quando arrivi a quelle note, lo sento nel ricordare te seduto su quel seggiolino di pelle nera ed io che mi avvicinavo, ti passavo una mano nei capelli e cominciavo a cantare.
Riempivamo la casa di noi.
Adesso siamo qui, così vicini e così lontani, così ancora nostri così già soli.
Quel tuo pianoforte ha sentito tutto, ha visto tutto.
Ha visto le mie dita imparare piccole melodie da suonare al tuo arrivo, ha visto la gioia dei tuoi occhi quando hai saputo di diventare padre, ha visto la mia gioia quando ci siamo trasferiti in questa casa e io decidevo i colori delle tende da mettere per proteggere il pianoforte dal sole.
Come. Sei. Veramente.
Continui a suonare quella canzone, continui e continui.
I miei occhi su di te.
Tremo.
In mano, bagnata, una busta bianca contenente un passo indietro.
Indietro di anni, indietro di case comprate, di spese fatte, di regali ricevuti, di notti d'amore, di giornate intense, di scappatelle nei week end per poterci amare, di due figli, di un gatto, di tre cani, indietro di un quadro, indietro di una crociera, indietro di quel viaggio di nozze, indietro dal nostro primo bacio. Indietro di tutto.
Poso la busta sul tavolino di Frattini che avevamo comprato ad un mercatino a Torino, la poso e resto ancora un attimo a guardarti.
Le tue braccia muscolose che nel suonare però si affievoliscono, si inteneriscono e si addolciscono come quando cullavi i nostri figli.
Ti manco. Lo so. Perchè non suoneresti a ripetizione questa nostra canzone.
Mi manchi. Lo so. Perchè non starei qui a guardarti e morire dentro.
Un passo indietro. Mi volto e pestando la mia pozza d'acqua vado via silenziosa come ero entrata.
La musica si interrompe.
Lui si gira, vede la busta e sente il suo profumo. E' stata qui.
Vede la pozza e le impronte di quelle scarpe, le sue scarpe.
Ti manco. Lo so. Perchè se non saresti stata zitta e non saresti andata via senza dire una parola.
Mi manchi. Lo so. Perchè le mie dita non smetteranno mai più di suonare.
Come. Sei. Veramente.




domenica 6 gennaio 2008

TRAMBUSTO


Chi ha paura batti un colpo. Perchè in questo silenzio affogo.
Perchè questa ironia ammazza più di parole ben dette.
Un corpo perfetto si avvicina, mi prende e mi colma di liquido d'amore mentre con le mani mi sfiora.
Sogno mentre i miei occhi seguono ammaliati scene di un film strano.
Un ritorno che ferisce una partenza che si vuole programmare, lontana, verso braccia che mai mentiranno, braccia amiche che ameranno incondizionatamente, una partenza che diventa ogni giorno più verace e più difficile.
Qui non c'è nulla che mi tenga. Non un corpo, non un sentimento, non persone indispensabili, perchè anche se ci fossero, all'improvviso riuscirebbero a ferirmi.
Una pugnala data sotto un raggio di sole così con quella velocità che i colibrì sbattono le ali, con quella velocità di una stella cadente.
Eppure. Eppure.
Nonostante questo sangue, nonostante queste gocce di sangue che macchiano la neve bianca non mi sento sconfitta.
Mentre dormo una mano silenziosa mi schiaccia dolcemente il naso.
La scena più dolce.
Mentre sono sdraiata sul divano chiedo un abbraccio e una persona si sdraia su me e mi abbraccia con il calore del suo corpo.
La scena più eccitante.
Scene, tante scene, infinite scene, parole scritte, buttate, cancellate, tenute serrate per permettere alla felicità di spargere il suo seme anche nel tuo grembo.
Partorirai nostro figlio. Senza che tu ora sappia nulla.